Renzi, Rohani e il concetto di osceno

Ci sono molti luoghi istituzionali dove è possibile accogliere personaggi politici per discutere, appunto di politica, e a Roma certamente abbondano, è cosa nota.

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E’ anche noto che Renzi ormai considera il Campidoglio cosa sua. Forse è per questo che per ricevere il Presidente iraniano Rohani si è scelto proprio il Campidoglio, e che per non turbare la sensibilità dell’illustre ospite si è deciso di nascondere dietro osceni, quelli sì,  pannelli bianchi le statue antiche – nude – che avrebbero potuto offenderlo nel suo passaggio ai Musei Capitolini. ROHANI A ROMA, 'RAFFORZARE RELAZIONI, ESPLORARE OPPORTUNITA''

Non si sa se sia trattato di una cortese premura di Renzi o se l’illustre ospite abbia fatto esplicita richiesta di coprire organi riproduttivi marmorei eventualmente presenti nel suo percorso, fatto sta che questa è la dimostrazione di quanto siamo pecoroni, privi di nerbo e dignità. Quello è un Museo, questa è la nostra storia, e non la si censura mai, per nessuno. Chi non la gradisce, può sempre farsi ricevere nel tinello di casa Renzi. Continua a leggere

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Anzio, una diga per l’incuria

Avanza il mare sulla spiaggia di Anzio; corrode avidamente la villa e il porto di Nerone, li sgretola e se li porta via. Quello dell’erosione costiera è un problema diffuso in molte regioni italiane, che si cerca di contrastare con opere di difesa rigide, come le scogliere, o con il recupero delle spiagge e delle dune, ricostituendo in parte l’habitat originario della costa.

Nel Lazio le zone più colpite sono Tarquinia, Santa Marinella, Terracina e appunto Anzio, dove ogni anno le falesie cedono e lasciano andare in mare ampie porzioni di mura antiche; tra il 2000 ed il 2008 ben 25 metri di costa sono spariti.

Il molo iniziato e non finito della Icem srl

Il molo iniziato e non finito della Icem srl

Un anno fa il Comitato per la tutela e valorizzazione della Villa e delle cosiddette grotte di Nerone ha chiesto di fermare e ripensare i lavori – una gettata di cemento – decisi per difendere una parte dei ruderi del porto dall’acqua del mare; il progetto è andato avanti, con una ruspa cingolata piazzata sulle creste dei muri, fino a quando il cantiere è stato chiuso nel mese di aprile perchè la ditta incaricata, la Icem Srl, é in odore di mafia.

Oggi resta il cemento gettato, ma resta soprattutto il problema del consolidamento delle strutture e della difesa della costa, certo di non facile soluzione. Più facile sarebbe almeno, tenere pulita la spiaggia, mantenerne il decoro, distruggere le costruzioni abusive, multare i bagnanti che lasciano rifiuti o che usano le creste dei muri come sedie a sdraio. Ad Anzio avanza il mare, ma l’incuria non arretra di certo.

Anzio, Spiaggia delle Grotte di Nerone

Anzio, Spiaggia delle Grotte di Nerone

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Anzio, spiaggia delle Grotte di Nerone

 

 

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Amministrazione e valorizzazione del territorio, separati in casa

Per gli innamorati in procinto di sposarsi nessun luogo è abbastanza bello per pronuciare il fatidico sì. C’è chi si svena e accende un mutuo pur di lasciare un ricordo indelebile negli invitati ad una cerimonia che, religiosa o civile che sia, è diventato un evento di portata nazionale.

Purtroppo alla mancanza di senso della misura che dilaga anche nel comune cittadino si aggiungono i colpi di genio degli amministratori locali, che offrono sempre più spesso ai futuri sposi “location”, per dirla come si usa oggi, d’eccezione: siamo partiti qualche settimana fa col Colosseo e con l’area archeologica di Paestum, ieri è toccato all’Oasi protetta di Torre Guaceto (Brindisi), dove puoi sposarti con solo mille euro con la possibilità di dotare la spiaggia, poesia poesia, anche dei bagni chimici, perchè anche nei momenti più romantici possono esserci bisogni impellenti.

Luciano Farro, il consigliere comunale di Capaccio che si è fatto portatore della proposta per l’area archeologica di Paestum, ha commentato orgoglioso:«E’ una proposta che consentirebbe agli sposi di convolare a nozze in una location di grande importanza storica e famosa in tutto il mondo. Agli sposi dovrebbe essere data anche la possibilità di scegliere in quale luogo dell’area sposarsi: nel Tempio di Nettuno, di Cerere o nella Basilica. Il nostro territorio ne ricaverebbe molteplici vantaggi: sposarsi in una location così prestigiosa comporterebbe un costo di una certa importanza e le risorse che se ne ricaverebbero si potrebbe investire in attività sia del Comune che della Soprintendenza. Si otterrebbe un grande ritorno in termini economici non solo per il Comune e la Soprintendenza, ma anche per l’intero indotto che ruota attorno all’organizzazione dei matrimoni. Inoltre una location così prestigiosa verrebbe sicuramente scelta anche da coppie famose comportando un grande ritorno in termini di promozione del territorio».

Non ha altre idee, il nostro consigliere Farro, per valorizzare il patrimonio archeologico protetto dall’Unesco, che immaginare i templi di Paestum sullo sfondo delle copertine di Chi e Visto. Per fortuna pare che queste proposte non abbiano raccolto grandi consensi, ma resta lo sconforto per la mancanza di dialogo tra il nostro patrimonio nazionale e chi lo amministra.

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Riscaldameto globale, più archeologia subacquea

La ricerca di soluzioni ai problemi relativi al cambiamento climatico, l’attenzione al paesaggio, la cura nella manutenzione delle aree archeologiche devono far parte, in tutto il mondo di un pensiero e di un progetto comune.

Al momento non è così, e se già soltanto le abbondanti piogge di questi mesi sono bastate per annegare le aree archeologiche italiana, da Ostia antica a Sibari -fa tremare lo studio Loss of cultural heritage pubblicato da uno studioso tedesco e uno austriaco che annuncia il disastro che colpirà a breve diversi siti Unesco, se non si fermerà in tempo l’innalzamento progressivo dei mari causato dal riscaldamento globale: a rischio le aree archeologiche di Pompei, Ercolano, Aquileia, Paestum, Velia, Ravenna e molti altri siti di interesse storico artistico. Insomma, se non si cambia rotta, le prossime ricerche archeologiche, di qui a 200 anni, saranno per i colleghi subacquei.

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Nello studio “Loss of cultural world heritage and currently inhabited places to sea-level rise” pubblicato su Environmental Research Letters, due ricercatori rivelano i pericoli dell’innalzamento del livello dei mari innescato dal global warming per i siti culturali patrimonio dell’Unesco, dalla Torre di Londra alla Sydney Opera House, da Venezia al Centro storico di Napoli, da Ravenna a Pisa – See more at: http://www.greenreport.it/news/clima/siti-italiani-patrimonio-unesco-pericolo-per-linnalzamento-del-mare/#sthash.xW80V9He.dpuf
Nello studio “Loss of cultural world heritage and currently inhabited places to sea-level rise” pubblicato su Environmental Research Letters, due ricercatori rivelano i pericoli dell’innalzamento del livello dei mari innescato dal global warming per i siti culturali patrimonio dell’Unesco, dalla Torre di Londra alla Sydney Opera House, da Venezia al Centro storico di Napoli, da Ravenna a Pisa – See more at: http://www.greenreport.it/news/clima/siti-italiani-patrimonio-unesco-pericolo-per-linnalzamento-del-mare/#sthash.xW80V9He.dpuf
Nello studio “Loss of cultural world heritage and currently inhabited places to sea-level rise” pubblicato su Environmental Research Letters, due ricercatori rivelano i pericoli dell’innalzamento del livello dei mari innescato dal global warming per i siti culturali patrimonio dell’Unesco, dalla Torre di Londra alla Sydney Opera House, da Venezia al Centro storico di Napoli, da Ravenna a Pisa – See more at: http://www.greenreport.it/news/clima/siti-italiani-patrimonio-unesco-pericolo-per-linnalzamento-del-mare/#sthash.xW80V9He.dpuf
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Mausoleo di Augusto, ancora una palude

Sono passate settimane dall’alluvione che ha provocato danni ingenti a strutture antiche e moderne del patrimonio architettonico romano, ma l’acqua continua a ristagnare intorno al Mausoleo di Augusto per il quale si attendono grandi interventi.

Le impalcature e i parapetti in legno sono crollati nel laghetto maleodorante nel quale prosperano gli insetti. La terra che circonda il fossato è franata in più punti. Gli scavi recenti sono un impasto di fango coperto dalla vegetazione spontanea.

Non proprio un bello spettacolo, e di certo questo ammollo prolungato nuoce alle strutture antiche. Non si può attendere oltre.

Mausoleo di Augusto

Mausoleo di Augusto

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Roma, Mausoleo di Augusto allagato

Il Mausoleo di Augusto, questa mattina.

Mausoleo di Augusto (foto Luca Pace)

Mausoleo di Augusto (foto Luca Pace)

 

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Torre Annunziata: archeologia civica, poteri e doveri

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Ci voleva una esclusiva de l’Espresso per scoprire che a Torre Annunziata c’era bisogno di un centro commerciale e che questo doveva sorgere proprio sull’area che un tempo ospitava un antico quartiere artigianale di notevole interesse archeologico, non lontano da Pompei. Sul sito del settimanale i commenti, apparentemente di non addetti ai lavori, in qualche caso di persone che vivono nei dintorni del sito, sono unanimi: quel centro commerciale non doveva sorgere lì. Molti si augurano che qualche cataclisma lo travolga, ovviamente quando è chiuso al pubblico, e che tra qualche secolo qualcuno lo spazzi via a colpi di piccone e riporti alla luce del sole quanto oggi si è scelto di coprire. Un successo, in termini di comunicazione.

Ovviamente anche molti archeologi – non tutti, bisogna dire – non si spiegano come si siano potuto concedere i permessi per una operazione che non può non scandalizzare. Zitti zitti, i responsabili avvicendatisi nel corso degli anni, hanno lasciato che le cose andassero avanti, in nome di che non si sa. Come è accaduto nel caso clamoroso di via Giulia a Roma, nel quale solo l’attenzione delle associazioni di quartiere ha risvegliato l’attenzione della città e ha, per il momento, bloccato una operazione che svende la città, anche in questo caso si è agito senza sentire il dovere di comunicare, di spiegare, di condividere, di argomentare, le scelte fatte. Come mi è già capitato di scrivere, non si tratta solo di archeologia urbana, ma di archeologia civica, del cittadino, di tutti noi. Non sempre, purtroppo, la Soprintendenza agisce in modo condivisibile. Ha il potere di farlo, ma che lo faccia senza nascondersi dietro veli o cantieri inaccessibili. Il Soprintendente ha in gestione un bene che non gli appartiene. E non deve mai dimenticarsene.

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Manfria, anche il gigante scapperebbe

La torre di Manfria (Gela), costruita intorno alla metà del 1500, faceva parte del glorioso sistema di avvistamento che proteggeva la linea costiera siciliana.

Torre di Manfria, Gela

Torre di Manfria, Gela

Quando le navi nemiche punteggiavano l’orizzonte, i fuochi segnalavano il pericolo alle torri vicine nella notte silenziosa.

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Oggi i nemici che affollano la costa e le pendici della collina di Manfria non vengono da lontano: sono gli elettrodomestici, divani, lavabi, i prodotti di scarto dei cittadini della piccola frazione di Gela che l’amministrazione incapace lascia ammonticchiare. Questo video mostra che con quei rifiuti ci si potrebbero arredare diverse abitazioni. La campagna, che custodisce diversi villaggi protostorici ed una necropoli, è puntellata da capannoni abusivi, parcheggi abusivi, abitazioni abusive. Alla faccia delle regole, d’estate le macchine dei bagnanti si arrampicano indisturbate sulle dune abbracciate da rigogliose ginestre, non sia mai che si debbano fare due metri a piedi per le abluzioni estive. Eppure, come segnalato da un recente studio:

• Il patrimonio archeologico e il valore paesaggistico del S.I.C. “Torre Manfria” sono protetti dal Piano di Tutela del Patrimonio Regionale (P.T.P.R.), come attestato dalla “Dichiarazione di notevole interesse pubblico per la località chiamata Manfria”, firmata il 2 gennaio 1987 dall’Assessore Regionale per la Cultura e il Patrimonio Naturale, “per l’evidente valore paesaggistico dell’intera area e per la presenza di importanti resti archeologici, che suggeriscono di assoggettare Manfria al vincolo archeologico”.

•L’area è un S.I.C. (Sito di Importanza Comunitaria) ai sensi della Direttiva
92/43/CEE.
• L’area è Z.P.S. (Zona di Protezione Speciale) ai sensi della Direttiva UE 79/409/CEE.
• L’intero golfo di Gela è dichiarato I.B.A. (Important Bird Area), secondo i criteri fissati da BirdLife International.
• L’intero golfo di Gela è un sito Ramsar, in riconoscimento della sua notevole importanza per l’avifauna acquatica, in accordo con la Convenzione Internazionale sulle Aree Umide, della quale il governo italiano è firmatario.
• Il S.I.C. “Torre Manfria” è tutelato dalla Convenzione di Bonn sulla Conservazione delle Specie di Animali Selvatici Migratori, ratificata dal Governo Italiano con la Legge 42/83.
• Il S.I.C. “Torre Manfria” è tutelato dalla Convenzione di Berna sulla Conservazione della Natura e degli Habitat, ratificata dal Governo Italiano con la Legge 503/81 e in Sicilia
dalle Leggi Regionali sulle Aree Protette (L.R. 98/81 e L.R. 14/88).
• Il S.I.C. “Torre Manfria” è tutelato dalla Convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ecosistema marino e delle aree costiere del Mediterraneo, della quale il Governo
Italiano è firmatario.
Non è abbastanza, evidemente. Alla torre e al paesaggio circostante è legata la leggenda malinconica del gigante Manfrino, che insieme alla sorella custodiva la bellezza di quei luoghi e che finì ucciso in riva al mare dai principi rivali, invidiosi della sua tenuta. Oggi, ridotta, com’è, nemmeno Manfrino la riconoscerebbe.

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Bronzi di Riace, testimoni di archeologia civica

I Bronzi di Riace sono tornati a casa. Dopo quattro anni di restauro sono di nuovo esposti nel Museo della Magna Grecia e in questi giorni se ne è parlato molto. Mercoledì scorso Cinzia Dal Maso e Francesco Alì hanno organizzato insieme a Gherardo Colombo una conferenza stampa nel timore che i Bronzi possano lasciare Reggio Calabria che li ospita dagli anni ’70; in questi giorni si è infatti parlato di esporli all’Expo di Milano. La discussione ha riportato l’attenzione su alcuni punti:

1) I Bronzi fanno ormai parte del patrimonio del Museo della Magna Grecia; pur essendo splendidi esemplari di arte greca, e non avendo quindi alcun legame originario con Reggio, sono ormai a pieno titolo, come ha sottolineato anche Gherardo Colombo, “figli adottivi” di questa città. Collocarli altrove seppure temporaneamente, significa privare la città di un simbolo.

2) Dice il falso chi afferma che durante l’ultimo restauro i bronzi sono rimasti chiusi in uno scantinato e non visibili. Il restauro si è svolto in un ambiente del Consiglio Regionale della Calabria, sempre aperto al pubblico. I visitatori sono stati numerosi, nonostante, a onor del vero, la nuova collocazione dei due capolavori non fosse pubblicizzata in modo efficace ai turisti.

3) Secondo gli archeologi e i restauratori che hanno lavorato ai bronzi nel 1994, il trasferimento dei Bronzi alla Maddalena per il G8  voluto da Silvio Berlusconi sarebbe stato una follia, un serio rischio in particolare per il Bronzo B, che presenta lesioni al torace e ad una gamba. In quella occasione solo il terremoto dell’Aquila fermò l’operazione, lasciando i Bronzi al loro posto. L’ultimo restauro non ha sanato queste lesioni, e il rischio in caso di trasporto resta dunque alto. I tecnici sono pagati per esprimere un parere, che è, o almeno dovrebbe essere, per legge, insindacabile.

4) Promuovere la circolazione di copie di questi come di altri capolavori sarebbe il modo più sicuro ed efficace di valorizzarne l’immagine senza metterli a rischio e senza depauperare Musei che, prima di tutto, sono istituzioni rappresentative del territorio che li ospita e non contenitori da svuotare come gli scaffali di un supermercato. Con il copyright delle copie ci si potrebbe guadagnare, eccome. E se alla produzione di copie si associasse una vera valorizzazione del territorio e la realizzazione di infrastrutture, il cerchio cultura – economia quadrerebbe una volta per tutte.

Quanto si è detto mercoledì induce anche ad altre riflessioni : a cosa serve l’archeologia? Cosa è davvero, questa scienza, per chi archeologo non è? La passione con la quale il Comitato guidato da Francesco Alì rivendica a Reggio il diritto di custodire i Bronzi è solo opportunismo o campanilismo come alcuni affermano, o il disperato tentativo di una città del sud di aggrapparsi ad un volano noto a livello mondiale? Senza i Bronzi Reggio Calabria non meriterebbe una autostrada o dei treni veloci che la colleghino al resto della penisola? Senza i Bronzi Reggio sarebbe una città senza storia, senza testimonianze gloriose del passato? Bastano i tesori custoditi nel Museo della Magna Grecia del quale si aspetta la piena riapertura a fare da corona ai due splendidi bronzi? Che senso ha che le immagini del ritorno dei Bronzi al Museo siano state date in esclusiva dal Ministero ad Alberto Angela, mentre i giornalisti venivano lasciati fuori? Non era forse quella una notizia da far vivere in diretta a tutti, prima che un fatto televisivo da trasmettere, interrotto dalla pubblicità, nei prossimi mesi?

Il Ministro Bray e Alberto Angela la sera del trasferimento dei Bronzi.

Il Ministro Bray e Alberto Angela la sera del trasferimento dei Bronzi.

Una cosa è certa, e lo ha confermato nel suo intervento di mercoledì la Prof.ssa Maria Fenelli, che ha creato a Pomezia uno museo che racconta i risultati degli scavi di Lavinio – Pratica di Mare: anche in un territorio apparemente desertico dal punto di vista culturale ed economico l’archeologia può portare grandi risultati: la statua di una dea può diventare il simbolo di una città il cui nome è spesso legato ad un outlet e le bambine possono avere la fortuna di ricevere il nome di Lavinia, piuttosto che Samantah o Deborah. Non è poco, perchè è la prova che l’archeologia crea appartenenza, dà responsabilità, genera orgoglio e costringe a riflettere prima di agire trasformando la propria terra in modo irreversibile.

Mi capita spesso di parlare di archeologia urbana, ma ancora più spesso in futuro parlerò di archeologia civica.

Reggio Calabria,1972.  La folla si accalca intorno ai Bronzi di Riace.

Riace,1972. La folla si accalca intorno ai Bronzi

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Mura Pregne, pietre e sangue

Al Signor Procuratore Generale della Repubblica

Presso la Corte di Appello di Palermo

Al Signor Comandante la Legione dei Carabinieri di Palermo

Francesca Serio Carnevale

Francesca Serio Carnevale

Sono Francesca Serio vedova Carnevale, residente a Sciara (Palermo), madre di Carnevale Salvatore fu Giacomo, di anni 32, ucciso lunedì scorso, 16 corrente, poco lontano dal paese, in prossimità della strada che porta alla casa di pietre sita in contrada Giardinaccio. Poiché un insieme di circostanze che qui di seguito esporrò dettagliatamente mi inducono a ritenere con certezza che gli autori del delitto debbano ricercarsi tra gli esponenti della mafia di Sciara e di Trabia, e poiché le stesse circostanze mi fanno dubitare che gli agenti di polizia del luogo possono rompere l’omertà che circonda il delitto, e pervenire quindi all’identificazione dei colpevoli, sono venuta nella determinazione di rivolgermi alle Signorie Loro per pregarLe di intervenire energicamente e sollecitamente nelle indagini richiamandole presso i Loro uffici.

Anzitutto intendo precisare che il mio povero figlio non aveva da tempo altri rancori se non quelli che potevano derivargli dall’attività sindacale svolta in favore dei braccianti disoccupati del Paese, né ebbe mai rapporti con la giustizia, se non in occasione delle occupazioni simboliche delle terre incolte, da lui promosse ed organizzate, e delle quali riferirò dettagliatamente. Fin dall’epoca della Liberazione, mio figlio prese ad interessarsi dei movimenti politici di sinistra, ed a propagandare, in occasione delle varie elezioni, la lista del Blocco del Popolo, simboleggiata dall’effige di Garibaldi.

Nel 1951 fondò a Sciara la sezione del Partito socialista Italiano, che ospitò, per un certo tempo in casa propria, e nel contempo si diede a riorganizzare la locale sezione della Camera del Lavoro, da tempo inattiva. Prima di questa iniziativa del mio figliolo, non esistevano a Sciara altre rappresentanze del Partito Comunista e Socialista.

Nel 1952 mio figlio cominciò a riunire e ad organizzare i contadini di Sciara, e li indusse a richiedere l’applicazione delle nuove leggi sulla ripartizione dei prodotti agricoli. Preciso che tutti i terreni vicini al paese di Sciara sono di proprietà della principessa Notarbartolo, e vengono in prevalenza coltivati ad uliveto, ma sotto gli alberi di ulivo viene coltivato il grano. Prima che mio figlio promuovesse le agitazioni dei contadini di Sciara, si usava che il raccolto del grano venisse diviso secondo le vecchie proporzioni, mentre rimaneva per intero attribuito alla proprietaria dei terreni il raccolto delle ulive, che veniva per altro affidato ad elementi di altri paesi vicini, prevalentemente di Caccamo. Pertanto, i contadini furono indotti da mio figlio a chiedere la integrale applicazione della legge, e quindi la raccolta delle ulive fosse affidata agli stessi contadini che coltivavano il grano, e che quindi il prodotto fosse diviso nella nuova misura stabilita dalle legge, cioè il 60% ai contadini, e il 40% al proprietario.

Queste agitazioni ebbero esito favorevole, e si conclusero con un accordo di compromesso con l’amministrazione della principessa di Sciara, per cui le ulive furono concesse agli stessi contadini che coltivavano la terra, e il prodotto fu diviso nella proporzione del 55% ai coltivatori e del 45 % alla proprietaria, mentre il grano fu diviso nella misura del 60% al coltivatore e del 40% alla proprietaria. Tutte le trattative, nel corso dell’agitazione, furono svolte con l’avvocato Marsala, che ha lo studio in Termini Imerese, e cura gli interessi della principessa Notarbartolo di Sciara.

A questo proposito ritengo opportuno riferire il seguente episodio: nel corso delle predette agitazioni, l’avvocato Marsala, invitò mio figlio presso il suo studio, e tentò di indurlo ad abbandonare la lotta intrapresa, promettendogli, in tal caso, tutte le olive che avesse voluto. Mio figlio respinse l’offerta e andò via, ma quando pochi giorni dopo tornò dal predetto avvocato Marsala, presiedendo una commissione sindacale composta, oltre che da lui, da Lodato Salvatore e da Tardibuono Mariano, l’avvocato, ancora risentito per la risposta ricevuta, rifiutò di riceverlo e volle parlare solo con gli altri due.

L’agitazione, comunque, si concluse con il successo già detto. Successo che danneggiava soprattutto i mafiosi di Sciara, tutti occupati come soprastanti e campieri presso l’amministrazione della principessa. La mafia, quindi, oltre che danneggiata economicamente, si ritenne offesa nel suo prestigio, in quanto non era riuscita, come nel passato, a imporre il sopruso di non fare applicare la legge.

Questo primo successo incoraggiò i contadini del mio paese, i quali si strinsero più numerosi attorno a mio figlio, che subito dopo, analogamente a quanto da tempo avveniva in altri paesi, intraprese la lotta per la concessione delle terre incolte e mal coltivate.

Così, nell’ottobre del 1952 una numerosa colonna di braccianti di Sciacca, accompagnati dalle loro donne e guidati da mio figlio, occupò simbolicamente le terre in contrada Giardinaccio, di proprietà della principessa di Notarbartolo. Si trattò di una semplice dimostrazione, nel corso della quale nulla fu danneggiato. Mentre il corteo si accingeva a rientrare disciplinatamente in paese, fu fermato dal brigadiere comandante la stazione dei carabinieri di Sciara, che perquisì numerosi partecipanti.

Poco dopo, quando i contadini erano già rientrati nelle loro case, mio figlio, assieme ad altri dirigenti sindacali (Polizzi, Lentini, Terruso) fu invitato in municipio per discutere. Ma appena vi giunse venne tratto in arresto assieme ad altri ed inviato alle carceri di Termini Imerese, da dove fu liberato otto giorno dopo.

Mentre mio figlio si trovava detenuto nelle carceri di Termini Imerese, accadde un episodio che ritengo opportuno riferire: un certo Tardibuono Luigi, soprastante ed uomo di fiducia dell’amministrazione della principessa, mi incontrò in contrada Romeo e, dopo avermi chiesto notizie di mio figlio, mi disse: “ Lo vedi che ci guadagnò tuo figlio? Ora lui è in galera e gli altri si raccolgono le ulive!”

Salvatore Carnevale

Lo invitai ad occuparsi dei fatti suoi e proseguii per la mia via. Ma pochi giorni dopo, l’incontro si ripeté nella piazza del paese. Scendevo dalla corriera di Termini, dove mi ero recata a visitare mio figlio, lì detenuto, e fui nuovamente avvicinata dal predetto Tardibuono, il quale, dopo avermi chiesto notizie di mio figlio aggiunse: “Senti, io tuo figlio lo rispetto perché è degno di rispetto, ma tu digli che lasci stare i partiti ed avrà per lui la migliore tenuta di olive, e chi ha figli se li campa per conto suo. Se no sarà condannato!”

Ancora una volta respinsi energicamente il Tardibuono, che mi lasciò dicendomi: “Comu voli fari fa!”

Uscito dal carcere mio figlio, per migliorare le sue condizioni, e nella speranza di raggiungere una più stabile sistemazione altrove, accogliendo l’invito di alcuni amici, si recò a Montevarchi in Toscana, dove rimase circa due anni a lavorare.

Durante la sua assenza fu applicata la legge di riforma agraria, in  seguito della quale furono scorporati all’amministrazione della principessa 704 ettari di terra. Di questi 704 ettari solo 202 ettari sono stati suddivisi in 45 lotti ed assegnati a contadini di Sciara.

Subito dopo, però, gli assegnatari furono oggetto di tutta una serie di “avvertimenti” di carattere mafioso: Croce Agostino ebbe il pagliaio bruciato, Ippolito Bartolo ebbe danneggiata la porta della casa colonica, e rubati attrezzi e alcune pecore, Serio Rosolino ebbe danneggiato gli innesti di pere e cardi, Baratta Calogero ebbe rubato il giunto dell’aratro, Siracusa Pietro ebbe rubate due pecore e poi quattro capre, Merlino Pietro ebbe rubato l’aratro.

Non so quanti di questi avvertimenti siano stati denunciati alla locale stazione dei Carabinieri. So, però, che Merlino Pietro, recatosi a denunciare il furto dell’aratro, fu quasi redarguito dal brigadiere che gli disse che la colpa era sua perché l’aveva lasciato incustodito, e lo invitò a tornare il giorno dopo per fare il verbale. Ma quello, non potendo perdere un’altra giornata di lavoro, non vi tornò più.

Comunque, durante l’assenza di mio figlio, cessarono a Sciara le agitazioni sindacali.

Mio figlio però tornò a Sciara il giorno 14 agosto dell’anno scorso, e subito riprese ad occuparsi delle lotte dei contadini e del suo paese, e poiché altri 500 ettari delle terre scorporate non erano state né lottizzate né assegnate, fu organizzata una nuova occupazione simbolica di queste terre, che ebbe luogo l’8 settembre successivo.

Anche questo secondo corteo fu organizzato e guidato da mio figlio. Tutto si svolse ordinatamente e senza danno per alcuno. Ma al rientro in paese il gruppo dei contadini fu fermato da alcuni carabinieri comandati dal tenente della stazione di Termini, il quale pretendeva che fossero a lui consegnate le bandiere. Mio figlio cercò di opporsi, ma fu minacciato con la pistola dal predetto tenente e fu costretto a consegnare la bandiera.

Anche per questo episodio mio figlio è stato denunziato all’Autorità Giudiziaria.

Frattanto, poiché era disoccupato, mio figlio si presentò al collocatore di Sciara, chiedendo lavoro. Dovette attendere parecchio tempo, ma infine fu assunto come manovale presso la ditta Di Blasi, che conduceva i lavori stradali di collegamento con il vicino paese di Caccamo.

Licenziato dopo due mesi, per esaurimento di lavoro, e quindi assunto dalla ditta Lambertini che ha in appalto i lavori in corso attualmente fra Termini e Trabia per la costruzione del doppio binario. Per procacciarsi la pietra necessaria per questi lavori, l’impresa Lambertini ha assunto l’appalto dello sfruttamento di una cava di pietra, situata appunto in contrada Giardinaccio, nelle terre di proprietà della principessa.

Ed anche in quelle circostanze intraprese appassionatamente la difesa dell’interesse dei lavoratori, organizzandoli ed esortandoli a reclamare l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore (invece che di 11 come si faceva), che avrebbe consentito l’impiego dei 32 disoccupati di Sciara, e la regolare corresponsione delle paghe, da tempo non corrisposte.

Questa nuova attività oltre a creargli attriti con il capo cantiere e con i sorveglianti addetti alla cava, lo pose in contrasto con i mafiosi di Trabia, in gran parte interessati, come sub-appaltanti, ai lavori predetti per la costruzione del doppio binario e del relativo tronco stradale. Questi lavori non possono proseguire speditamente se la pietra della cava non affluisce regolarmente.

Ora per imporre il rispetto della legge e quindi l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore e la corresponsione delle paghe arretrate, mio figlio si recò anche dal brigadiere dei carabinieri di Sciara, che però si rifiutò di intervenire, dicendo che la questione non era di sua competenza.

Ma mio figlio non desistette dalla lotta, e anzi fece un comizio, durante il quale parlò delle giuste richieste dei lavoratori, e attaccò i mafiosi locali e quelli di fuori, accusandoli di schierarsi sempre contro gli interessi dei poveri. Nello stesso periodo di tempo mio figlio scrisse una lettera alla Lega Edili di Palermo, invocandone l’aiuto per la risoluzione della questione.

Questi fatti accaddero nei primi giorni di maggio, ma non posso precisare la data. Giovedì 12 maggio mio figlio si recò alla cava e indusse i lavoratori a scioperare e a non riprendere i lavori fino a quando non fossero state corrisposte le paghe arretrate.

I lavoratori aderirono ed abbandonarono il lavoro tornando in paese. Il capocantiere, poco dopo, giunse in paese, cercando di persuadere i lavoratori a ritornare alla cava ed assicurando che gli arretrati sarebbero stati pagati subito.

Pertanto il venerdì successivo si riprese il lavoro, ed anche mio figlio tornò alla cava. In quello stesso giorno si presentò in contrada Giardinaccio, mentre si lavorava, un maresciallo, di Termini, accompagnato da alcuni estranei, e seguito a distanza da un certo Mangiafridda. Il maresciallo, avvicinatosi a mio figlio, lo rimproverò aspramente, dicendogli: “Tu sei il veleno dei lavoratori”. Mio figlio rispose: “Se lei mi deve arrestare mi arresti, se no mi lasci lavorare, perché qua sono pagato per rompere pietre per otto ore al giorno”.
Intervenne il Mangiafridda e rivolto a mio figlio disse: “ Picca n’hai di sta malandrinaria” [“durerà poco ancora questo tuo atteggiamento malandrino”].
Questo incidente fu da mio figlio  successivamente riferito ai suoi amici Russo Sebastiano e Tardibuono Filippo entrambi di Sciara. Il sabato successivo fu versato agli operai un acconto di lire seimila e fu promesso che presto sarebbero stati saldati gli arretrati. Dopo che l’agitazione fu iniziata, e qualche giorno prima dello sciopero, non posso precisare se di martedì o giovedì, accadde che mio figlio fu oggetto di altra grave minaccia, che io appresi in questo modo: la sera mio figlio tornato dal lavoro si mostrava stranamente nervoso e preoccupato, tanto che quasi non toccava cibo. Naturalmente, ansiosa per lui, cominciai a pregarlo perché mi confidasse ogni cosa. Ma mio figlio, evidentemente temendo le mie reazioni, o per non suscitare in me eccessive preoccupazioni, si rifiutava di parlare. Infine si decise a confidarmi quanto gli era accaduto, e cioè che, mentre rientrava a casa, proprio alle porte del paese, era stato richiamato da un caratteristico invito: “Psst! Psst”, e non si era voltato.

Tanto che l’individuo che voleva parlargli, lo chiamò per nome dicendogli: “Salvatore, sei diventato tanto superbo da non darmi retta?”.

“Io ho un nome – rispose mio figlio- e quindi non mi sono fermato fino a quando non mi hai chiamato con il mio nome”.

Allora il mafioso che l’aveva fermato prese mio figlio confidenzialmente sotto il braccio e gli disse testualmente: “Lascia andare tutto, ritirati, e avrai di che vivere senza lavorare, non ti illudere perché se insisti finirai con il riempire una fossa!”.

Mio figlio, più irritato che intimidito dalla minaccia evidentemente rispose: “Io non sono un disonesto e non voglio regali, se dovete ammazzarmi, fatelo pure, ma chi ammazza me, ammazza Gesù Cristo”.

Naturalmente, saputo l’episodio, insistei moltissimo con mio figlio perché mi confidasse anche il nome del mafioso che lo aveva minacciato, ma mio figlio che pure l’aveva certamente riconosciuto, non volle confidarmelo, e infine mi assicurò che la domenica successiva intendeva fare un comizio, durante il quale avrebbe riferito il fatto e indicato il nome del mafioso che lo aveva minacciato.

La domenica successiva, 15 maggio, si celebrò in Sciara la festa del santo Patrono e poiché era stata presa l’iniziativa di sospendere, in quella occasione, tutti i comizi, mio figlio rinviò anche il suo, ma, sempre più preoccupato, volle recarsi a Termini Imerese per chiedere aiuti a quei dirigenti sindacali, Il lunedì mattina mio figlio fu trovato morto nelle circostanze risapute.

Io appresi nelle prime ore del mattino che un cadavere era stato trovato lungo la strada che portava alla cava, e, come altre donne, mi precipitai nella via, per avere maggiori dettagli. Le pietose bugie di alcuni congiunti, che pur assicurandomi che non si trattasse di mio figlio, cercavano di dissuadermi dal recarmi sul posto, lungi dal tranquillizzarmi fecero nascere in me  i primi dubbi sull’accaduto. Notai che un certo Paci, anche lui in ansia per le sorti del figlio operaio alla cava, aveva chiesto e ottenuto da Mangiafridda di essere accompagnato con la moto sul luogo dove giaceva il cadavere. Io mi avviai, a piedi, sola, sfuggendo a coloro che cercavano di trattenermi. Appena fuori dal paese mi imbattei di nuovo nel nominato Mangiafridda che tornava sulla moto, recando nel sedile posteriore il Paci.
Li fermai, chiesi loro se avevano visto il cadavere, se lo avevano riconosciuto. Mangiafridda mi rispose: “Ti giuro che non l’ho riconosciuto”. Paci, invece, mi disse: “Non ho potuto vedere bene il cadavere. So soltanto che non è mio figlio”.

Proseguii per la mia strada e, poco dopo, da lontano, dalle scarpe, da un po’ di calze che si intravedevano sotto la stuoia che copriva il cadavere, ebbi la certezza che l’ucciso fosse mio figlio.

Questi i fatti e le circostanze che hanno preceduto l’assassinio della mia creatura. Questi i motivi per i quali ritengo che sia opportuno che le indagini siano condotte direttamente dagli uffici di Palermo, e sottratte all’ambiente locale, tristemente dominato dalla mafia.

E’ necessario che tutti coloro che sanno vengano incoraggiati a parlare, e parleranno solo se si renderanno conto che le indagini sono affidate a buone mani, e che la loro incolumità non corre pericoli. Per questo ho deciso di affidare la mia denuncia alle Signorie Loro, ripromettendomi di tornare nei loro Uffici tutte le volte che avrò occasione di apprendere notizie utili alle indagini.

Confido che giustizia sia fatta, ed in coscienza ritengo di aver dato il mio doveroso contributo, riferendo tutto quanto so in ordine al delitto.

Palermo, 20 maggio 1955

Questa testimonianza parla, come tutte le storie di mafia, di morte e di un dolore infinito, anche perchè, dopo una prima condanna, gli imputati furono assolti per insufficienza di prove, nonostante queste fossero schiaccianti e nonostante l’impegno e la dedizione dell’avvocato Francesco Taormina e di Sandro Pertini.

Ma oltre a questa triste vicenda c’è dell’altro. La cava teatro di questo omicidio è stata il luogo in cui si è perpetrato un altro delitto, questa volta ai danni della storia. A due passi da Termini Imerese e da Sciara (PA), in una terra abitata dall’età preistorica, ricca di acque, fertile e florida, la cava Lambertini fu aperta in un sito archeologico di importanza straordinaria, Mura Pregne.

Mura Pregne (foto Soprintendenza di Palermo)

Mura Pregne (foto Soprintendenza di Palermo)

Le pendici orientali del Monte San Calogero custodivano splendide mura megalitiche (panciute, quindi pregne) poste a difesa di un importante centro sicano in posizione dominante sul mare; mura a secco, costruite con blocchi di calcare di notevoli dimensioni, spesse fino a m 5,5 e alte circa 9 metri.

Mura Pregne ( foto Soprintendenza di Palermo)

Mura Pregne ( foto Soprintendenza di Palermo)

La mura megalitiche (foto Soprintendenza di Palermo)

La mura megalitiche (foto Soprintendenza di Palermo)

Nonostante il vincolo archeologico apposto nel 1954, la furia della mafia non risparmiò quei colossi dell’età del Bronzo, immersi nella fitta vegetazione. L’attività della cava, iniziata nel 1953 e proseguita per trent’anni, determinò la distruzione dell’80% del sito, che fu fatto a pezzi, ridotto in briciole.

Mura Pregne. L'area in grigio scuro indica la parte distrutta dall'attività della cava. ( Immagine Soprintendenza di Palermo)

Mura Pregne. L’area in grigio scuro indica la parte distrutta dall’attività della cava. Quella in chiaro le parti risparmiate dalle escavazioni. ( Immagine Soprintendenza di Palermo)

Gli archeologi francesi che vi scavavano negli anni ’70 subirono ripetute minacce, fino a quando non abbandonarono la missione. Forse anche l’opinione pubblica e le amministrazioni locali ritennero più utili i posti di lavoro che la cava Lambertini assicurava; come succede anche oggi, all’archeologia si chiedeva di essere redditizia, ma quando si trattava di lasciar spazio agli scavi, diventava improvvisamente secondaria.

Ma l’omicidio Carnevale dimostra tragicamente che chi gestiva la cava non aveva certo a cuore l’interesse del popolo; le cicatrici lasciate da quegli anni di libera devastazione del paesaggio testimoniano la cecità, l’ignoranza, l’ipocrisia e l’accidia di chi allora poteva sostenere la Soprintendenza di Palermo nella sua battaglia durata trenta lunghi anni e invece l’ha lasciata sola, rendendosi così complice della mafia.

Oggi un piano di recupero, presentato già da tempo, potrebbe restituire a Mura Pregne la sua dignità e all’Italia la memoria della sua storia, di tutta la sua storia. E’ tempo di cambiare.

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